Di orticarie e asini che cascano. Il tutto per nulla natalizio.
Dicembre non è il mese della tredicesima. Di certo non per i freelance. In particolare per i consulenti di comunicazione direi che potrebbe essere il mese dell’orticaria. Quella provocata dagli auguri di Natale che tutti si trovano a dover mandare, specialmente quelli che di comunicazione non hanno bisogno, a sentir loro.
“Mi scrivi quattro parole che devo fare gli auguri di Natale?” – su un’immagine a caso, diciamo pino addobbato all’americana o logo con aggiunta di sciarpa e cappello con pelliccia bianca.
“Lo staff augura…”, “Lo studio augura…”, “Vogliate gradire i nostri auguri”, “Oggetto: save the date per scambio auguri”, fino ai più onesti “Lo studio resterà chiuso per le festività”.
Sono solo pochi, ma reali esempi di messaggi che sto ricevendo, come ogni anno. Li cancello subito, e stavolta riconosco di aver fatto male, che il repertorio sarebbe più ampio, pur nella standardizzazione imperante.
Solo a me stridono come un’unghia strisciata sulla lavagna?
Solo a me vengono le grinze in faccia come se avessi addentato un biscottino col candito andato a male? Non credo.
Io che odio i paroloni, quelli che, semplicemente rinominando le cose ti consentono di venderle a caro prezzo, stavolta invidio chi riesce ad usarli, dando saggio di profonda conoscenza in semantica, comunicazione, neuroscienze, storytelling e chissà che altro. In realtà basterebbe un minimo di sensibilità, per questa apparentemente umile azione di fare gli auguri di Natale.
Come ogni microtesto, ogni scritto concentrato, e soprattutto come ogni sabbia mobile della banalità, qui è dove ci si gioca davvero molto. Più breve il testo, più difficile. Da questo non si scappa. Più trita e ritrita l’occasione… vedete voi.
Me la vedo, la malcapitata segretaria, o anche la titolare dell’agenzia di servizi, davanti alla pagina bianca, con il compito di imbrattarla in qualche modo, e col mal di testa. E poi vedo arrivare una cosa che pare una cartella esattoriale, e mi viene la tristezza. Un po’ anche la rabbia, a dire il vero, che pur di non vedere certe cose te lo potevo fare anche a cambio merce, che ne so, di un F24, di un chilo del tuo prodotto (magari mi serve, hai visto mai), di una resettata al PC, che ne ha sempre bisogno, di due interruttori del nuovo impianto elettrico.
Mento sapendo di mentire …
che non bastano cinque minuti nemmeno a me. Il lavoro da fare parte da lontano, dall’identità direi. Da una comunicazione che è frutto di pensiero, di consapevolezza, di personalità. Una grandissima rottura di… no è Natale, non si può dire e le palle sono solo quelle dell’albero. Ma se non l’hai fatta, la riflessione, qui, come diceva sempre la mia prof. di italiano (che non si poteva chiamare semplicemente “prof”), qui casca l’asino!
Ci ho messo tre giorni a fare i miei, di auguri di Natale. Tre giorni passati a fare molte altre cose, ma giorno e notte restava un sottofondo di pensiero che ogni tanto tornava lì, come un’ossessione (piccolissima, mica ci perdo la salute).
Magari non fa il famigerato “effetto wow!” – perché, volevamo forse che fosse così? – ma ho preparato un messaggio autentico, solo mio. Rappresenta il “perché faccio quello che faccio” e velatamente fa polemica su quello che non voglio più fare, che possiamo riassumere in scrivere in aziendalese a suon di “leader del settore” (non fa per niente ridere, ce n’è ancora tanto in giro).
Ho scritto gli auguri anche per i miei clienti e per qualche amico, ogni volta pensando a chi sono loro, a come parlano e a chi, e soprattutto al perché stanno mandando gli auguri di Natale (spoiler: gli auguri non sono una newsletter di vendita, e neanche un’auto celebrazione dei successi ottenuti nell’anno che si chiude).
Potrò aver sbagliato, o avrei potuto fare meglio, ci mancherebbe, ma da qui non escono né staff né “cordiali saluti”, formula che riservo solo quelli che mi dicono “Mandi una mail a info, le risponderanno se interessati”.
E buon Natale, ovviamente!