Di cosa si scrive, si parla, si ricorda, se non di fatti, grandi e piccoli, che cambiano la nostra giornata? Non necessariamente a caccia di emozioni forti, ciascuno di noi fissa dei punti su una mappa, quella del tempo, che si arricchisce di esperienze, di incontri, di scambi. Ecco perché ogni tanto accetto volentieri di sentirmi decisamente fuori luogo e di indossare vesti inusuali. Stavolta sono stati quelli della “degustatrice”.
Esiste una vera categoria, quella dei degustatori, persone che prendono la cosa molto sul serio. Dedicandosi con impegno alla materia, diventano esperti di ogni cosa che degustano. Naturalmente a diventare degustatore seriale è un attimo, tra vino, birra, grappa, formaggi, caffè, acqua, tè, e chissà che altro. Insomma tutto quello che si può pensare di ingerire (con piacere, intendo: la trielina è esclusa dalla serie, tanto per capirci.)
Io, ovviamente, non faccio parte di questi, essendo una discontinua, curiosa e superficiale, ma soprattutto curiosa. Toccata e fuga, si direbbe, onnivora in senso letterale e anche metaforico.
Dunque, l’altro giorno ho accettato con piacere l’invito ad una degustazione di birre e formaggi, un appuntamento inserito nel gustoso calendario di “Made in Malga”, kermesse d’altura che si svolge ad Asiago (Vicenza). Sono appassionata di birre? No. Sono esperta? Anche meno. Però di imparare a riconoscere sapori, profumi e sfumature non mi stancherò mai.
Dunque, stavolta mi sono trovata a tu per tu con le birre artigianali italiane. Acqua, luppolo, lievito, malto. Più il Mastro birraio. Quattro ingredienti più uno, et voilà, la birra è servita. Facile no? Ecco, no. Il birraio (che si guadagna sul campo, giorno per giorno, la qualifica di Mastro) deve governare una materia viva, e abbastanza creativa, se non addirittura renitente alle regole, come i lieviti; deve fare i conti con i sentori della natura rimasti a dare carattere alle poche, semplici materie prime che ha a disposizione per creare un prodotto il quale, alla fine, deve piacere a molti.
Come prevedevo, ma in modo diverso da come immaginavo, si è aperto uno spiraglio su un mondo che, solo per chi vorrà varcarne la soglia, riserva un enorme libro da sfogliare. I due esperti che conducevano la degustazione, uno di birre e uno di formaggi serviti in abbinamento, ce ne hanno raccontato qualche pagina, con palpabili passione, competenza e capacità divulgativa. Ed ecco il caffè Anteribo, la scuola tedesca, le mucche francesi allevate in altura, anticamente munte in due fasi, per eludere le tasse e per ottenere un latte ricco, grasso e proteico (non dichiarato come quantità, ndr) con cui produrre il re dei formaggi a pasta dura – una squisitezza che mi ha conquistata anche prima di conoscerne l’origine – le salature con impacchi e l’affinatura in grotta naturale.
Quello dei prodotti alimentari artigianali è un mondo straordinariamente variegato, composto, come in un caleidoscopio, di infiniti spunti di unicità. Dall’acqua di fonte, come si trova a 1400 metri, a piante maturate sulle pendici di questo monte, ad una tecnica di tostatura che si pratica solo in una valle, fino ad un aroma autoctono che si aggiunge per creare un abboccato unico. Di questo si compone una ricetta non clonabile, a mala pena imitabile, senza dubbio invidiabile come ricchezza esclusiva.
Riecheggia, facendo da esempio tangibile, quelle lezioni di personal brand che altrimenti rischiano di restare un po’ staccate dalla realtà: punta sulle tue unicità. Facile a dirsi, ma poi ci fidiamo di farlo davvero? Ecco, i prodotti alimentari (anzi, i loro produttori), lo fanno. Selezionano, scelgono e si fanno scegliere. “Niche down” si dice. Evitiamo di tradurre con qualcosa che già vedo scivolare pericolosamente verso il petaloso, e comprendiamo il senso di scendere in profondità, lasciando ad ogni passo qualcosa sulla strada, sfogliando la definizione di noi come si farebbe con un carciofo, fino ad arrivare al cuore, al centro di una Terra dove stiamo solo noi.