Inganno e inganni, e poi tutti felici. Tutti all’opera a rivivere le nostre stesse storie.

Annabaldo

‘Di cosa hai paura?’
‘Degli uomini!’  Esclama Isabella con voce cruda, nel registro più basso della voce, quasi a svuotarsi con un urlo rauco di questo fardello pesantissimo che finalmente esce, come altro da lei.

Non è l’unico apice cui si assiste nella farsa “L’inganno felice”, un libretto inaspettatamente profondo e moderno, per essere stato scritto all’inizio dell’800, tanto da suggerire al regista una lettura psicoanalitica, che sovverte l’ordine temporale della Storia. Diversi sono i momenti davvero da pelle d’oca, in questa breve opera, naturalmente enfatizzati dalla musica che, senza dircelo, ci entra sotto pelle e sortisce i suoi effetti, e, visivamente, dalla figura di un alter ego che, danzando, racconta la verità del personaggio, ancora non completamente consapevole.

Isabella è una donna, è tutte le donne,
di ogni età, che vivono con addosso
una (o più) delusioni, abbandoni, tradimenti.

L’interprete, giovane cantante, crede che sia una questione di età, che la cosa riguardi le prime delusioni giovanili. Io la rassicuro: non cambia niente, a nessuna età. Il lavoro da fare è sempre lo stesso. Prendere coraggio e attraversare il cerchio di fuoco, la prova di forza, della tua forza. Se sei fortunata, e lo sarai senz’altro, ci sarà un Tarabotto a far precipitare le cose, con l’apparente rudezza del vero affetto, quello che ti fa ingoiare la medicina amara, che ti butta nell’acqua perché tu possa dimostrare a te stessa che sai nuotare.

Isabella acquista forza, e centralità nelle dinamiche della storia, passando da oggetto in mano agli uomini (moglie, tradita, abbandonata, messa in pericolo di vita, in balìa del mare e poi salvata, sempre da altri) a protagonista attiva del proprio destino. La voce cristallina e piena del soprano ha il sopravvento sulle altre, potenti e cupe, degli uomini.

Chiede prima di tutto la libertà,
del cuore, e poi decide che farne.
Fosse anche confermare l’amore allo stesso che la tradì.

Atto sublime, insondabile (non so se il librettista lo sceglie perché “si fa così”, per togliersi d’impaccio altrimenti l’opera durerebbe cinque ore, o se non ci ha fatto caso di quanto “grande cosa” sia un perdono del genere.) L’opera rossiniana resta “comica” e quindi obbliga al lieto fine, e fa trovare nell’amore, mai sopito, la possibilità di un superamento dei traumi subiti. Ma si capisce che non è un tornare a come stavano prima le cose, ma portare tutto su un piano diverso, superiore.

Riaccettando lo sposo, Isabella
dovrebbe stare su una pedana alta un metro,
almeno.

D’accordo, narrativamente si fa così, non sidiscute. Mai si torna allo stato iniziale. Ma anche saperlo non sminuisce l’effetto dell’opera, l’energia che infonde. Certo, la potenza viene dalla musica, la forza emotiva si nutre delle capacità interpretative dei protagonisti in scena*. Queste sono cose che permeano lo spettatore, se non musicista esperto, e sortiscono il loro effetto anche, e forse ancora di più, proprio su quanti siano inconsapevoli dei meccanismi tecnici che sottendono l’arte. Quello che richiede di essere compreso, decodificato, da parte dello spettatore, è il testo, e devo dire che anche in questo caso, ci sono vari punti che colpiscono molto. Mettiamoci che lo spettatore viene portato in una sorta di ottovolante emotivo, passando (quel geniaccio di) Rossini in breve tempo da un registro all’altro, dal comico al patetico, dalla paura della notte al sorriso benevolo della presenza amica, fino alle gag semiserie dei personaggi buffi. Non avrà saputo niente di endorfine, adrenalina e simili, ma le sapeva usare benissimo.

Quindi, tutti all’opera, di quelle che esci con le lacrime di commozione (magari celate, non che si vedano volti rigati tra gli spettatori, ma qualche stomaco ingarbugliato – come direbbe Pretty Woman – anche se per poco tempo, c’è di sicuro) e dici “tanto pianto, tanto piaciuto”, oppure “wow”  se sei di un’altra generazione. La musica trionfa, alla fine c’è il tripudio degli applausi, che stempera le emozioni accumulate. Poi torni a casa, e ti resta dentro una vaga sensazione, un po’ di Isabella.

*Questa recensione è molto più che “non richiesta”, come lo sono le altre. Intanto non è una recensione, che non sta a me giudicare lo spettacolo e i suoi interpreti, di cui non parlo. Si tratta infatti di un lavoro che sto seguendo come ufficio stampa, quindi il mio può essere al più uno sfogo personale, e ben per questo sta nel mio bloggerello semi-clandestino.