Assaporare una pietanza abbandonandosi ai sensi, quasi un entrare nel flusso e lasciarsi trasportare dall’imprevisto: si accetta questo come in un gioco, una sorta di sospensione consapevole dell’incredulità (ok, so che si tratta di una favola e ci sto, accetto tutto come vero. In cambio, la favola mi stupirà, mi conquisterà).
Quando vado al Lido, durante il Festival del Cinema – lasciatemelo chiamare con il suo nome di casa, non con quello formale – per me è così. Sulla terrazza (Terrazza Biennale) il tutto si amplifica per la vicinanza al mare, cui non mi abituerò mai, spero. Sole, brezza, luce piena, contesto glamour ma al tempo stesso familiare, specie se ti accolgono i padroni di casa, rendono irresistibile questa sosta. La magia funziona anche se è nuvoloso perché tutto quel movimento in cielo è uno spettacolo altrettanto affascinante; gli azzurri si mischiano ai grigi, la luce cambia d’un tratto ma resta sempre protagonista. Sono a casa, anzi, nella casa dei sogni, irreale e fantastica. Il tempo si ferma, le distanze dal mondo sono incolmabili. Guardo da distante il brulichio dei molti che ci lavorano, e non li invidio.
Il pranzo è veloce, giusto prima di una proiezione, un film scelto a caso, senza leggerne trama o recensioni, solo per il suo orario, compatibile con incontri e mezzi pubblici per il rientro in terraferma, come si dice qui.
Spaghetti al pomodoro, un classico dei classici, essenziale e discreto come il tubino nero di Coco. Però ci sarà la mano dello chef. Nell’amplificarsi delle sensazioni, la cosa si riempie di attesa. La sinestesia sposta la mia attenzione dalla luce che quasi ferisce le palpebre socchiuse all’aria che mi spettina i capelli, inutilmente raccolti, al rosso aranciato del pomodoro, in contrasto con la candida porcellana. Prima ancora di raggiungerne il sapore, mi stupisce la consistenza degli spaghetti al dente; quasi non cedono ai rebbi che li vorrebbero avvolgere su se stessi.
Mi riprometto di registrare la sensazione di questa resistenza sotto le mie dita, per riuscire a replicarla ancora. Due, forse tre ingredienti fanno l’opera d’arte che manderebbe in visibilio mezzo mondo. Quando racconterò ad uno straniero come si prepara la pasta, un piatto che nell’immaginario collettivo globale fa parte del mio stesso DNA, riuscirò a rendere giustizia a questo, preparato da Tino, che ne è il modello assoluto?
Posto una foto e la commento “Sua Maestà”. Mi pare appropriato. Un angolo di semplicità che cela lo stile di un totale understatement. La pasta è di grani antichi, trafilata al bronzo. Certo, non tutti potranno cogliere la sottigliezza, a meno di aver provato la differenza che fa. Dopo questo dono, via in sala a fare il pieno di altre emozioni. Prima di riprendere la strada di casa, un incontro casuale e fugace con Tino, e una foto un po’ come si fa con i VIP.
NOTE
- Lo chef Tino Vettorello da dieci anni gestisce la Terrazza Biennale e altri importanti eventi.
- Vorrei sapere (da Tino) un paio di segreti del suo tocco per questi spaghetti, tanto non riuscirei nemmeno così ad eguagliare il risultato. Però sai come la racconterei?