Ho sempre avuto un pregiudizio sulle le griffe. Specie quando sono solo un marchio, e la cosa su cui stanno appiccicate non mi convince. Per convincermi, un accessorio moda deve dirmi qualcosa “da solo”, mi piace perché mi piace, non perché “va”. La vipera del Diavolo veste Prada avrebbe il suo bell’insegnamento in merito, ma io sono talmente radical chic da fregarmente pure di lei e della sua dottrina della passerella.
Che non fossi un animale da star-system, lo sapevamo già, e questa ne è la prova del nove.
Non riconosco un originale da un tarocco (sarà perché a volte i pezzi taroccati sono identici, in tutto e per tutto, compresi materiali e manodopera, e hanno solo preso un tir che ha a sua volta preso una strada diversa … ad un certo punto del tragitto?) e non lo sento come un problema. Non inorridisco al vedere il dettaglio della borsa, un gancio, una cucitura, palesemente diverso da quello nelle vetrine in via Monte Napoleone. E me ne vanto.
E quando capita che il cinquantenne supergriffato, businessman “dei poveri” si rivela più tarocco dei miei tarocchi, allora è festa grande, con fanfara e tutto il resto. È la rivincita intima su certi trattamenti cui il destino ti espone, e che se sei furbo riesci a guardare con apollineo distacco. E stavolta, sono stata apollinea il giusto.
Succede dunque, ovvero accadde mille anni fa, in un paese tanto lontano, che il suddetto griffato, potenziale ipotetico cliente, ti chiama, reclamando un appuntamento praticamente dal venerdì sera a lunedì mattina. Il libero professionista (non il figo con ufficio nella villa palladiana, ndr) che fa? Svuota l’agenda all’istante, se è donna e magari aveva da andare in palestra non tanto per combattere il tempo e la forza di gravità, ma anche solo per dare un aiutino alle ossa, che la dovranno sostenere per poter lavorare ogni giorno che il Signore manda in terra, bene anche la palestra viene cancellata: di fronte ad un potenziale cliente si fa così, se no poi è colpa tua se non hai giro. Dunque, il griffato fa di sicuro il conto: questa ha una borsa in similpelle, scarpe anonime, niente pendagli al polso o brillantoni al dito. Costo minimo, dunque. Tariffario fissato.
Il colloquio dura un’oretta (che nessuno paga al professionista. D’ora in poi, lo chiameremo anche sprovveduto). L’incontro ha due livelli: la conoscenza del “progetto” del cliente, che somiglia più che altro un riciclaggio di se stesso, e un livello sornione, che sta sotto; non si vede ma di quando in quando si fa sentire. La parte “sottile” del consulente, quella epidermica, stregonesca o da Lilith che dir si voglia, fa increspare la pelle come un venticello fresco appena usciti dall’acqua. Ebbene sì, questo personaggio ha qualcosa di sfuggente, fa schizzare il pensiero al protagonista de “La morte a Venezia”, con il suo belletto osceno. Il belletto, stavolta, è l’attrezzatura griffata.
Ma qui si cerca di lavorare, non facciamoci prendere da ‘ste raffinatezze letterarie che, come è noto, non danno da mangiare a nessuno. Il mondo è di chi lo sa vendere! Giusto?
Giusto sì, mi tocca dire …
Insomma, messe da parte le titubanze, si procede alla proposta. Si scelgono i partner, si fanno i preventivi e si manda la proposta.
Risposta … ah no, stavolta la risposta non arriva. Ma come, non aveva una fretta malsana di avere l’immagine per la sua creatura cui aveva già dato un nome (scelto da lui, senza accorgersi che ha battezzato una società di consulenza con una parola che richiama un preservativo, o al massimo un disco volante. D’altra parte creare un nome è una cosa da niente. Chiunque lo può fare, no?). Passato il ragionevole tempo di un imprevisto, il professionista capisce l’antifona: questo è una patacca. Non ha neanche i soldi che equivalgono ad una sola delle sue scarpe, da destinare al suo lavoro. Nonostante questo, per quella voglia di mettere i puntini sulle i che quando non si ha più nulla da perdere diventa una frenesia incontrollabile, il professionista (sprovveduto e ora anche assetato di sangue, virtualmente) procede con la classica tirata di orecchie al fedifrago, pezzo di bravura del deluso, più inutile di qualsiasi accessorio, griffato o non.
All’inevitabile risposta, bieca, del “il prezzo è troppo alto, abbiamo già fatto diversamente”, si risponde con la stessa lingua: il silenzio eloquente. E non mi si dica che la borsa griffata non serve, il più delle volte, a coprire il nulla che sta sotto. Lo stile vero, intrinseco, trova una rappresentazione di sé nell’apparire, non il contrario. Ma se così fosse, le case di griffe non farebbero i numeri che fanno. E buon per loro.