Radical chic

Annabaldo

Contro mia voglia, sono finita per essere una single radical chic. La definizione non è arrivata tutto d’un colpo, ma attaccando i vari termini, uno alla volta, a quello che nella realtà virtuale e nelle indagini di mercato si chiamerebbe il mio “profilo”. Termine buono anche per i criminali, a pensarci bene.

Dunque single. Grazie a dio ci siamo evoluti e ormai “zitella” è un termine antico, usato solo a Venezia, somiglia a “pulzella”. Se penso che la legge ecclesiastica dice che la perpetua, per essere donna fuori dalle tentazioni, deve avere 40 anni… ma siamo proprio sicuri che i “reverendi” abbiano mai, anche solo per un attimo, desiderato restare lontani dalle tentazioni? A me non la racconta più nessuno. Che vengano stigmatizzate, le signorine tentazioni, neanche un dubbio. Così sono pure gratis, alla fine dei conti. E se qualcuna presenta il conto… orrore, la corruttrice! Ecco, il mondo non si è evoluto neanche di un millimetro, con buona pace di karma e company. Siamo ancora all’età della pietra.

Ma non era questo l’argomento del post. Veniamo a radical-chic. Radical indica un certo coraggio, un’ostinazione, in qualche modo, una tendenza all’estremo, al totale. Potrebbe anche avere una connotazione positiva. “Chic” è un destino, che dire! Che colpa ne ho, se mi disegnano così? Gliel’hanno dato un premio a quello che ha cucito addosso a Jessica Rabbit questo mito di frase? Spero proprio di sì, diversamente sarebbe un’altra ingiustizia cosmica.

Dunque, quasi a mia insaputa mi affaccio al mondo targata “radical chic” e pure “single”, se a qualcuno importa. E cosa fa una single radical chic? Il pane.
Il pane in casa, con le mani, senza la macchinetta che neanche vedi cosa ci butti dentro, e poi, voilà! Esce il cubetto di pane perfetto.

Il mio pane ha richiesto un anno di tirocinio, la ricerca di un maestro che, come dicono alcuni illuminati, arriva da solo a te, quando ti pare di non stare cercando nulla.

Il mio maestro di pane, che credo sia inconsapevole di esserlo, è un giovinotto nerboruto e alto due metri, che fa sport estremi e parla prevalentemente in un dialetto stretto stretto che non si capisce nemmeno troppo bene.

Mani grandi e grande cuore.

Mi ha spiegato quei dettagli essenziali per fare il pane in un modo così semplice che a me è sembrato poetico. L’acqua deve essere “bella”. Non fredda, e neanche tiepida, ma piacevolmente calda (e quindi in rapporto anche alla temperatura dell’aria. In inverno si preferisce un’acqua più calda che in estate): bella, insomma. Se piace a te che fai il pane, piacerà anche a lui (il pane).

Poi si deve lavorare con le mani, con generosità, “perdendosi via”. Ed è vero, impastare è un po’ un mantra, un movimento ripetitivo che ti porta a non pensare, ad astrarti nella piacevolezza tattile dell’accarezzare la pasta morbida. E come una carezza, piace a chi la fa e a chi la riceve. La pasta incorpora aria e ti ringrazia lievitando meravigliosamente.

Dunque ormai ho “le mani in pasta”, fuor di metafora, e mieto successi su successi con i miei pani. Ma che c’entra con la radical-chic? C’entra e come! Perché una sera, invitata da un’amica ad una serata “decisamente radical-chic”, come mi avvisava l’amica per evitare che potessi sentirmi un pesce fuor d’acqua (mica tutti sanno che io pure sono della stessa razza). Non avendo di che omaggiare il banchetto estivo che si sarebbe allestito, ho pensato di partecipare con il pane fatto la sera prima. Poi, per farmi perdonare, ho aggiunto anche una bottiglia di rosso.

Sottovalutando la mia pensata, mica ho fatto l’ingresso trionfale con il prezioso bene. Il mio pane è entrato di soppiatto, in forma anonima, io intimorita da uno sfoggio di pane in cassetta e grissini accanto agli affettati.
Allora, come un bombarolo, mi sono messa in un cantuccio a vedere, non vista, l’effetto che sortiva l’arrivo del pane “rustego”. Ah aha, i “veri” radical-chic, che hanno sane radici contadine, si leccavano i baffi, accaparrandosi i pochi pezzi disponibili. Passando da dietro, con indifferenza, ho persino sentito qualcuno, sfoggiando una sapienza infinita da vero intenditore, affermare con certezza matematica: questo è fatto con il forno a legna!

Spiacente, viene dal mio proletarissimo fornetto elettrico della cucina Ikea, ma è fatto con le mani e con gli insegnamenti del cuore (del mio maestro).